Il Cristo Morto (da Leggende Napoletane di Matilde Serao)
- Elia
- 7 feb 2020
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(...) Fra una tomba e l'altra, statue e gruppi allegorici, sempre in quell'interno e freddo marmo. Ecco il Pudore col volto coperto da un velo, ecco la Fortezza, ecco la Temperanza, ecco la Gloria, ecco l'Educazione, ecco l'Amor Filiale, vuote allegorie che non chiudono più alcuna idea. Ultimo, poeticamente ultimo, è il disinganno, un uomo che cerca con uno sforzo supremo distrigarsi da una fitta rete che l'avviluppa tutto. Singolare chiusura della vita, termine singolare di tutte le sublimità, di tutte le passioni, di tutti gli amori. Il Disinganno - e più altro. - Perché questa tomba non ha medaglione? domando al custode.
Egli non m'ha udita e non m'ha compresa, perché ricomincia a dire: - Il Cristo morto...
- Vediamo l'altar maggiore - ripeto io, ostinandomi. Sì, l'ultima tomba a dritta non ha medaglione. Manca il ritratto della nobile principessa che vi è sepolta, che è morta anch'essa così giovane. Il medaglione è liscio, vuoto, bianco, come se ne avessero raspata, cancellata l'immagine. Ed è triste come nella sala ducale, a Venezia, il ritratto di Faliero, coperto da un velo nero.

L'altra maggiore è nudo, severo. Sulla parete, in fondo, in alto v'è un quadro, una Vergine della Pietà, scolorita, che sostiene sulle ginocchia il livido corpo di Gesù. La pittura è guasta, bruna, tetra; un sorcio ha fatto un buco nero nel costato di Gesù. Più giù, proprio dall'altura maggiore, un grande gruppo in marmo che rappresenta la deposizione della croce. Sempre lo stesso soggetto, sempre la morte.
- Ed ecco - ripete trionfalmente il custode, staccandosi dall'altura maggiore - il Cristo morto.
Sta ai piedi dell'altura maggiore, a sinistra. Sopra un largo piedistallo è disteso un materasso marmoreo; sopra questo letto gelato e funebre giace il Cristo morto. E' grande quanto un uomo, un uomo vigoroso e forte, nella pienezza dell'età. Giace lungo disteso, abbandonato, spento: i piedi dritti, rigidi, uniti, le ginocchia sollevate lievemente, le reni sprofondate, il petto gonfio, il collo stecchito, la testa sollevata sui cuscini , ma piegata sul lato diritto, le mani prosciolte. I capelli sono arruffati, quasi madidi del sudore dell'agonia. Gli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora quelle ultime e più dolorose lagrime. In fondo, sul materasso sono gettati, con una spezzatura artistica, gli attributi della Passione, la corona di spine, i chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello. Sul piedistallo, sotto i cuscini, questa iscrizione: Joseph Sammartino, Neap., fecit, 1753. E più nulla.
Cioè no: sul Cristo morto, su quel corpo bello ma straziato, una religiosa e delicata pietà ha gettato un lenzuolo dalle pieghe morbide e trasparenti, che vela senza nascondere, che non cela la piaga ma la dolce, che non copre lo spasimo ma lo addolcisce.
Sopra un corpo di marmo che sembra di carne, un lenzuolo di marmo che la mano quasi vorrebbe togliere. Niente manca dunque in questa profonda creazione artistica: e vi è il sentimento che fa palpitare la pietra, turbando il nostro cuore, e v'è l'audacia del creatore che rompe ogni regola, e v'è il magistero di una forma eletta pura, squisita. Quel corpo morto era poc'anzi vivo, si contorceva nelle angosce di un'agonia spaventosa, giovane e robusto si ribellava al male, si ribellava alla morte. Non vi era sfinimento, non vi era abbattimento: le fibre non volevano morire, il corpo non voleva morire.
Ma sotto le pieghe del lenzuolo la testa ha un carattere stupendo: la fronte liscia ha un vasto pensiero; piangono gli occhi, è vero, per cruccio fisico, ma le labbra schiuse hanno una traccia di sorriso che è una indefinita speranza. E' vero, è vero, il dolore è passato dal corpo all'anima; è vero, l'anima è contristata, ma non è disperazione, ma non è desolazione. L'anima come la bocca è abbeverata di fiele, ma una goccia di consolazione v'è stata.
Tutto quel Cristo è un dolore supremo, ma è anche una suprema speranza; ma il mistero di quella testa divina è così grandioso, ma l'ammirazione per la meravigliosa opera d'arte è così sconfinata, ma la pietà del bellissimo estinto è così invadente, che il pensatore si scuote e non frena più le acute indagini della sua mente, l'artista si inchina nell'esaltazione al suo spirito ed il credente non può che abbandonarsi, piangente, sui piedi del morto, cospargendoli di lagrime e di baci. (...) Lo scultore ha saputo, ha sentito. Ha saputo, ha sentito che cosa fosse al tormento sottile che stride come una sega piccina ed inesorabile; la desolazione grigia, lunga, monotona, dove tutto è cenere, tutto è nausea, tutto è disgusto: la disperazione larga e vasta e lenta come una fiumana di pianto; la disperazione fragorosa e tumultuante come un torrente che tutto trascina. Chi ha fatto quel Cristo ha spasimato d'amore; ha amato ed ha pianto (...); ha amato ed una convulsione ha contorta e spezzata la sua vita (...) Solo un uomo che ama può creare quel Cristo morto; solo colui che soffre col trasporto, con la passione delle sofferenze, può mettere in una statua tutta la sublime epopea del dolore. Ogni colpo di scalpello che scheggiava, rompeva, carezzava, curvava, ammorbidiva il marmo, era una parola, un gemito, un lamento, un grido, uno scoppio furente di questo amore. La passione dell'uomo vivo creava la passione del Cristo morto. (...)
- Perché quella tomba non ha ritratto? - chiesi di nuovo uscendo dalla chiesa, mentre il custode faceva tintinnare le chiavi.
- Lo scultore non ebbe tempo di finirlo...
- Quale scultore?
- Il Sammartino.
- Ah!...
- ...morì prima di finirlo. Fu trovato in una straccia buia, di notte, con un pugnale nel petto.
- Fu ucciso o s'uccise?
- Si crede che si fosse ucciso.
Come, nello strazio dell'ignota agonia, la testa del morto scultore doveva rassomigliare a quella del Cristo morto!
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